Filippo Manzini da Building Terzo Piano
Da martedì 16 a sabato 20 settembre 2025, BUILDING TERZO PIANO presenta Lavoro sul campo, una mostra-evento di Filippo Manzini che presenta una selezione di lavori dell’artista tra opere inedite e produzioni site-specific realizzate per l’esposizione. In occasione dell’opening, martedì 16 settembre 2025 dalle ore 19.00 l'artista interverrà negli spazi di BUILDING TERZO PIANO presentando al pubblico una performance inedita, un’azione che produrrà una nuova installazione site-specific. Lavoro sul campo è accompagnata da un testo critico di Giorgio Verzotti, il cui contributo offre uno sguardo approfondito sulla poetica della pratica artistica di Manzini.
Gli interventi dell’artista nascono in relazione allo spazio espositivo e sono pensati appositamente per la loro istallazione. Per Manzini l'arte è un’esperienza vissuta attraverso le diverse pratiche artistiche, in particolare la performance, le installazioni site-specific e le opere fotografiche: l’artista intende donare questi momenti della propria intimità al pubblico, che è chiamato ad essere partecipe. Le opere presenti in mostra sono accomunate dal tema della tensione, un aspetto cardine della ricerca di Manzini. Le diverse forme espressive presentate concorrono a rendere la mostra un'entità unica, restituendo un quadro complessivo della sua ricerca: le opere esposte, infatti, non sono semplici elementi isolati, ma contribuiscono a definire un'esperienza complessiva che tiene conto dell'ambiente che le ospita.
“Attraverso interventi minimi innesto sottili perturbazioni nella normale percezione dell’architettura che ospita le mie pratiche. Spesso le mie sculture nascono da un’esperienza performativa, diventando poi fotografie che valgono come eventi plastici rimemorati. Tra l’immagine e l’oggetto ritratto, esposto in mostra, si crea così un equivalente di ricerca formale. Per me l’atto che intercorre nel comporre l’opera è un elemento fondamentale” – dichiara l’artista in merito alla sua pratica. |
Filippo Manzini Lavoro sul campo
Per Filippo Manzini ogni mostra è un lavoro sul campo, dato che la maggior parte delle sue opere nasce in risposta all’ambiente espositivo cui è destinata. Di fatto, la ricerca dell’artista è integralmente basata sull’esperienza dello spazio, sia esso il chiuso dei luoghi deputati all’arte sia esso l’aperto dello spazio urbano; l’opera in sé è la risposta agli stimoli che quell’esperienza ha indotto, sia come luogo operativo sia come luogo in transito. Dentro, la pratica dell’artista è quella performativa, esplicata con studiati gesti quasi rituali che dispongono oggetti o materiali nello spazio, modificandolo minimamente. L’artista parla di interventi minimi che perturbano la normale percezione delle architetture indagate. Fuori, la flanerie in città genera incontri con le architetture che stimolano l’artista, letteralmente, a misurarsi con esse: il suo corpo diventa uno strumento utilizzato alla stessa stregua del metro che reca con sé, si commisura cioè con la struttura architettonica opponendovi la propria antropometria. Così si rendono visibili la scala, le proporzioni che differenziano le dimensioni del contenitore, l’edificio, da quelle del contenuto, il corpo umano, dove l’uno e l’altro sono considerati come puri segni. Anche queste posture sono atti performativi che la fotografia blocca e documenta, divenendo, lo dice lo stesso Manzini, “evento plastico rimemorato”.
Lo si vede nelle opere esposte in questa occasione, dove l’architettura indagata, si potrebbe dire “avvicinata”, è quella di Herzog & de Meuron per la Fondazione Feltrinelli a Milano. Quando invece è il video ad essere impiegato la dimensione del tempo reale restituisce la natura evenemenziale dell’opera, che si risolve creando sul luogo delle piccole sculture effimere. Evento è un termine appropriato per capire la poetica di Manzini. C’è molto poco di statico nel suo lavoro, e se c’è, è comunque carico di tensione. Quando l’opera nasce in studio, senza riferimento al contesto che la ospiterà, sarà un’opera che lo spazio lo contiene in nuce, che lo progetta. L’opera è composta da elementi posti in tensione fra loro, una relazione di forze e controforze in equilibrio che definiscono una struttura visivamente stabile ma non statica, nel senso che è carica di energia in potenza.
Le opere realizzate per questa mostra sono centrate sul rapporto fra listelli di ottone inserite in orizzontale alla parete che inglobano flessibili bacchette di legno poste in diagonale, oppure fra cornici in cemento che contengono frammenti di spago e di legno. Ogni elemento resta fisso grazie all’attrito, alla tensione e alla pressione posti fra essi. La tensione diviene di fatto la condizione di visibilità dell’opera stessa. Sullo stesso principio, una lunga fascia di iuta sapientemente ripiegata avvolge e tiene sospesi due blocchi di marmo l’uno sull’altro, senza che si tocchino.
Tutte queste caratteristiche tornano negli atti performativi di Manzini: il rapporto, che qui si fa dinamico, fra il corpo dell’artista e l’architettura, la misurazione, la messa in tensione fra i materiali impiegati. Lungo l’ampia parete della galleria, l’artista individua i punti in cui applicare i chiodi tra quali poi stende la corda che sosterrà i lunghi listelli di legno posti in verticale al di sotto. Una volta definita una simile fragile struttura, il semplice atto di cambiare di posizione ai listelli rispetto allo spago che li sovrasta cambia sensibilmente la sua intera configurazione. Così, con queste multiformi operazioni, Manzini rende lo spazio espositivo un ambiente costellato di punti energetici. |
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